
Questa analisi sull'impatto, negli ultimi anni, del grime in Italia pone una serie di quesiti, a partire dal titolo, che a poco più di quindici anni dall'uscita di "Boy in da Corner" , sono ancora aperti. Proprio l'esordio di Dizzee Rascal, nel 2003, sulla maggioranza delle testate musicali italiane (molte scomparse...) veniva lodato, anche per questo abbiamo deciso di riproporvi l'ascolto in streaming qui sotto.
Qualche mese fa, mentre saltavo sulle note di “Shutdown” al live di Skepta al Magnolia di Milano, una domanda ricorrente ha iniziato ad attanagliare le mie riflessioni: il grime riuscirà mai a sfondare in Italia? Sembra strano ritrovarsi in testa un dubbio simile mentre si sta pogando in un locale pieno, ad uno show sold-out, con un artista di rilevanza mondiale sul palco. Eppure il dubbio si è insediato proprio nel momento in cui ho iniziato a guardarmi intorno: gli italiani non mancavano, assolutamente, ma tantissimi dei presenti erano stranieri. Su tutti, spiccava una comitiva di circa quindici persone arrivata dalla Bulgaria: fermandomi a scambiare quattro chiacchiere, quasi non sembravano capacitarsi di quanto la venue fosse piccola, rispetto al riconoscimento che Skepta (qui sopra nella foto di Roberto Graziano Moro) dovrebbe avere, numericamente parlando. Nel frattempo io pensavo che invece lo show fosse stato un successo, visto che il Magnolia era effettivamente pieno: come mai questa sorta di approccio con due pesi e due misure?
Se si va a guardare al grime e alla sua storia, alla sua cultura e ai suoi suoni, si capisce immediatamente quanto sia profondamente legato all’Inghilterra. Il forte imprinting dato dalle sonorità garage ed elettroniche è tanto evidente quanto pervasivo, e non basta adottare il veicolo espressivo del rap per dar vita a un risultato universalmente apprezzabile. Liricamente poi, il legame si fa ancor più evidente: non si tratta di gangsta rap, non si tratta di millantare rapporti e connessioni criminose, si tratta di mettere nero su bianco – e in musica – ciò che sui quotidiani britannici occupa pagine e pagine di cronaca, spesso nera. Il grime nasce e prospera nei block, nei quartieri lontani dalle copertine patinate delle riviste di gossip UK, dove le istituzioni stentano ad arrivare e ci si arrangia in altri modi. Non si tratta però di grida d’aiuto, di richieste disperate di soccorso da parte dello stato o chi per lui: il racconto è quasi apatico, spigoloso, privo di filtri e per nulla edulcorato. A ciò va aggiunto l’utilizzo di uno slang piuttosto ben definito ma allo stesso tempo ostico, difficile da interpretare, a prescindere da quanto buono possa essere il proprio inglese. Ci si ritrova così tagliati fuori da ciò che il rapper sta raccontando, incapaci di arrivare al nucleo centrale di un testo, poiché privi dei mezzi per farlo. In parole povere, il grime non è un genere che ha intenzione di aprirsi al pubblico, servono pazienza e dedizione per tentare di decifrarlo.
Messe da parte ambientazioni e tematiche – non riproponibili proprio a causa di una distanza culturale insormontabile -, qualche artista italiano ha tentato di rappare su sonorità grime. Il sodalizio tra Rasty Kilo e Stabber aveva prodotto qualche esperimento interessante, per poi interrompersi a causa di forza maggiore; il collettivo Numa Crew è attivo e continua a produrre grime, eppure sembra ottenere più risonanza all’estero – dall’Albania agli U.S.A., passando per la stessa Inghilterra – che in Italia. L’ep “Showgun” di Ninjaz, membro della crew, è stato infatti particolarmente apprezzato dagli addetti ai lavori, eppure la risonanza nel mercato è stata minima. Yodaman, rapper napoletano nonché tra i pionieri del grime in Italia, è un nome che fa capolino quasi esclusivamente nei taccuini degli addetti ai lavori più informati, ma non tra quelli generalisti. Rivalutando il risultato di Skepta al Magnolia, mi verrebbe quasi da dire allora che il sold-out non è stato un successo, ma quasi una sorta di rivoluzione copernicana. I ripetuti endorsment di Drake, Kanye West e dell’ASAP Mob – Rocky su tutti – sembrano aver portato Skepta sotto gli occhi degli appassionati di rap italiano, ma non basta. La cultura grime rimane lontana dai riflettori, lontana dalla scena, lontana dalle cuffie degli appassionati: Stormzy, un nome che negli States è arrivato a collaborare con colossi del calibro dei Linkin Park, in Italia ha una considerazione minima. Dizzee Rascal, colonna portante degli grime e uno dei pochi artisti del genere universalmente conosciuto oltreoceano, è materiale da appassionati e intenditori. Giovani promesse quali AJ Tracey e Avelino finiscono per essere considerati quasi “materiale da hipster”, per quanto è irrisoria la nicchia di appassionati che li segue.
La risposta alla domanda iniziale è quindi difficile, sfuggente, eppure inizia a delinearsi. Andrebbe forse approfondita la riflessione, sviluppando un quesito ulteriore: quello italiano è un mercato culturalmente adatto? Nella cultura dell’ascoltatore medio di rap c’è del terreno fertile per lasciar prosperare il grime? Oppure rimarrà sempre un prodotto di nicchia, destinato ad emozionare in maniera incredibile un pubblico purtroppo esiguo? Qual è il peso specifico del discorso linguistico? È l’italiano in sé a rivelarsi una lingua poco adatta ai suoni tipici del grime? Si tratta di un filone destinato a rimanere legato in maniera univoca alla pronuncia inglese? Gli indizi sembrerebbero deporre a favore della seconda ipotesi, ma ai posteri l’ardua sentenza.