Stefano Ghittoni (foto in homepage di Matteo Ghittoni) ci racconta "Mezzanine" e le atmosfere del 1998, anno di uscita di questo disco che i Massive Attack celebrano con un tour in arrivo anche in Italia nel 2019.
A pochi giorni dall’annuncio delle tre date italiane dei Massive Attack per celebrare il ventennale del loro terzo e storico album, “Mezzanine” (potete vederli il 6 febbraio al Forum di Milano, l’8 febbraio al Palalottomatica di Roma e il 9 alla Kioene Arena di Padova), abbiamo parlato di questo disco, del 1998 e di altro con Stefano Ghittoni, dj, produttore musicale e radiofonico (dal 2012 va in onda con il programma Comizi D’Amore su Radio Popolare Milano), tra i maggiori conoscitori italiani del trip hop (oltre che di tanti altri generi, come leggerete). Stefano Ghittoni è anche una delle tre menti dietro l’etichetta discografica Intervallo, specializzata in ristampe su vinile di musiche originariamente composte per la radio e la televisione. Dal 1998, inoltre, incide dischi per Schema Records dietro la sigla The Dining Rooms e, attualmente, sta producendo dischi anche come Tiresia e GDG Modern Trio. In gioventù è stato cantante del gruppo psichedelico Peter Sellers And The Hollywood Party di cui Spittle ha pubblicato un vinile antologico intitolato “Early Years 1985-1988".
Nel 1998 hai formato i Dining Rooms ed eri resident ai Magazzini Generali di Milano. Che tipo di musica selezionavi e quali erano i ritmi che il tuo pubblico ballava più volentieri?
Ho suonato ai Magazzini dal 1995 al 2007, ho sempre avuto un suono eclettico quindi molto vario, funk, dancing jazz, elettronica… con esattezza, nel 1998, non ricordo cosa suonavo, ma quello che è certo è che quando iniziai le prime serate e il drum and bass era uno dei generi suonati, divenne rapidamente il main style: piaceva tantissimo a me suonarlo e alla gente ballarlo e di fatto i Magazzini divennero il primo club “istituzionale” a suonare quel genere musicale. Iniziai nella saletta piccola, quella sotterranea, ma in un paio di anni sono passato al main stage dove ci ho suonato fino alla fine. Era un momento di grande ricerca e di voglia di nuovi suoni, sia per i dj ma soprattutto per il pubblico: mi capitava di tagliare un brano drum and bass con pezzi dub, reggae o comunque downtempo e la gente seguiva il flow perdendosi nel percorso ritmico, super presa bene. È stato un periodo unico, già anni dopo, se cambiavi il ritmo, che spesso era diventato quasi solo 4/4, magari rallentandolo un po’, la gente si lamentava. La prima fase dei Magazzini fu molto interessante proprio dal punto di vista della sperimentazione nel dancefloor.
Durante i tuoi set ti capitava di mettere pezzi dei Massive Attack?
Certo, probabilmente “Karmacoma” o i remix dub di Mad Professor. I Massive Attack comunque sono stati, e sono, un progetto pazzesco… li suono ancora, per esempio il remix che fecero per i francesi Négresses Vertes lo metto molto spesso.
Come era stato recepito, in Italia, "Mezzanine", appena uscito? Partendo dal tuo rapporto/giudizio personale con/sul disco (quanto e come è cambiato negli anni, per esempio), ricordi se c’era chi lo aveva vissuto come un “tradimento” di “Protection”?
“Mezzanine” rimane un grande disco, anche e soprattutto riascoltato ora. Rispetto al tradimento è indubbio che i primi due dischi dei Massive Attack abbiano un posizionamento preciso e, anche se malinconici, sono più groovy, più black… io li ho amati moltissimo, addirittura del primo disco ho la primissima versione che uscì solo come Massive, visto che per la guerra del golfo non poterono usare Attack. “Mezzanine” anche mi piacque quando uscì, soprattutto per l’utilizzo di Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins alla voce (mi piaceva questa cosa dei cantanti presi da contesti diversi), però dopo quest disco per un po’ non li ho più seguiti come una priorità… mi riavvicinai quando fecero il brano con Terry Callier, “Live With Me”. “Mezzanine” fu un disco quasi rock come impostazione, molto claustrofobico, fu anche il disco della diaspora. Dopo il disco i Massive diventarono due, se ne uscì Mushroom che, se vogliamo, era la cosa più hip hop oriented che avevano. È come se fossero diventati adulti, quasi un superamento della filosofia del bristoliano Wild Bunch che fu la cosa più intrigante nella nascita dei Massive Attack, un collettivo aperto di beatmaker, MC, artisti e writer che superavano proprio il concetto classico di band come era stato impostato fino a quel momento. Diciamo che con “Mezzanine” sono diventati il gruppo di 3D: è forse una semplificazione, anche un po’ troppo tranchant, ma ci sta.
In quegli anni ti si poteva incontrare anche dietro il bancone di Ice Age, storico negozio di dischi in Ticinese, e sugli scaffali, tra i vari generi, avevate anche molto trip hop e molta drum and bass. Si può definire in qualche modo la clientela che si direzionava verso questi suoni?
Ice Age era un negozio piccolissimo (un corridoio di 17 metri quadri) che vendeva solamente musica elettronica in tutte le sue sfaccettature: ambient, industrial, gotico, techno, house, drum and bass, trip hop. La clientela era molto varia perché vari erano i generi, anche se tutti in un ambito underground. Vendevamo Aphex Twin e le cose delle Warp, molta Ninja Tune e Mo’ Wax passando per 4 Hero, Goldie, Dj Shadow e Chemical Brothers ma anche Current 93, Death in June , Psychic tv, Dead Can Dance. Erano rarissimi gli sconfinamenti, intendo tra Goldie e Current 93… si può dire che in generale era un pubblico che cercava comunque delle sonorità insolite, che aveva voglia di sperimentare. È ancora quello che c’è dietro la filosofia del digging, anche ai nostri giorni. La magia della musica, la ricerca di un suono, di qualcosa che ti stupisca, che ti porti altrove.
Quanto pensi che il lavoro sui bassi del cosiddetto trip hop (anche visto che l'area sonora è sempre stata contigua al dub) abbia influito sui futuri producer di bass music?
Penso che il trip hop possa avere influito ma come sempre le influenze non sono molto codificabili, forse alcune bassline techno e synthoni drum and bass possono avere influito di più… la cosa che influenza più di tutte, secondo me, è però il condizionamento sociale, il tempo in cui vivi, soprattutto quando sei un produttore giovane e inizi, sei permeato dalle tensioni, sia positive che negative, che ti circondano.
Tra gli artisti della scena trip hop chi rendeva meglio dal vivo? C’è stato qualche concerto che ti ha impressionato di più?
Tra i concerti più belli che ho visto sicuramente Portishead, li ho visti tre volte, ogni volta diversi e ogni volta pazzeschi. La prima volta (al B-side) fu un concerto brevissimo molto jazzy con la proiezione del film “To Kill a Dead Man” che avevano prodotto e il dj set hip hop/soul di Andy Smith; la seconda volta al Rolling Stone e fu molto psichedelico con chitarre che a volte raggiungevano le atmosfere acide dei Grateful Dead e, mischiate con le ritmiche hip hop e la voce di Beth, fu veramente un viaggione; la terza invece fu all’Alcatraz per presentare il terzo album, “Third”, e lì ci si avventurava quasi nel kraut rock… pazzeschi. Anche la prima volta che suonarono gli Air (tra l’altro ai Magazzini con prima e dopo il mio dj set) mi piacquero molto. Mi ricordo che suonai i dubplate del primo disco dei Dining Rooms, che sarebbe uscito dopo un paio di mesi. Una bella esperienza e un ricordo che non mi lascerà mai. Massive Attack dal vivo invece furono altalenanti, la prima volta fu quasi una session hip hop, senza band, e il risultato non fu memorabile, li rividi più avanti in un festival con la band e fu molto meglio. Ora hanno un live potentissimo.
Nel tuo percorso di musicista, invece, qual è stata l'influenza del trip hop? Con The Dining Rooms lo avete frequentato molto…
The Dining Rooms sono stati catalogati come un gruppo trip hop e il nostro secondo album, "Numero Deux", nel suo piccolo è anche un disco cult della scena: uscì nel 2001 e fu pubblicato in USA, Giappone e Germania. In realtà il trip hop fu un termine giornalistico per definire l’instrumental hip hop, di fatto delle basi di derivazione hip hop senza l’MC. Diciamo che l’hip hop strumentale, mischiato alle influenze cinematiche della cultura italiana, al blues e al folk, diventano gli ingredienti primari delle nostre produzioni. Siamo stati definiti anche nu-jazz ma era veramente un po’ una forzatura. Nonostante il jazz mi piaccia tantissimo e lo ascolti spesso ha uno sviluppo più ampio rispetto alle nostre atmosfere che, invece, sono più circoscritte dal punto di vista armonico.