
Dieci anni fa chiudeva il Maffia, un club con una storia unica in Italia, gestito da veri appassionati di musica. Ne abbiamo parlato con uno dei soci fondatori, Dj Rocca, cercando di concentrarci su quanto la drum and bass abbia contato in quell'esperienza.
Dj Rocca ha animato uno dei locali che ha segnato la storia della club culture in Italia: il Maffia. Un club immerso in una provincia sui generis che Fabrizio Tavernelli, socio di Rocca nel progetto Ajello, ha definito "exotica": Reggio Emilia.
Dj, producer e musicista attivo dalla metà degli anni ’90, Luca Roccatagliati (vero nome) le prime volte che si è messo a girare le manopole (come si diceva una volta) ha creato proprio dei pezzi drum and bass e, sempre al Maffia, specialmente nei primi anni del club - aperto nel 1995 e chiuso nel 2009 - ha incrociato vari esponenti della scena inglese (qui sotto un breve video amatoriale con Goldie ai piatti), spesso appartenenti a quella scuola con gli incroci musicali nel DNA, ben rappresentata da etichette come la Ninja Tune. Gli abbiamo fatto delle domande riguardanti soprattutto il nostro campo d’azione ma sono venute fuori tante altre cose anche perché Dj Rocca, negli anni, ha spaziato tra stili, suoni e ritmi diversi, come ci ha raccontato o come si può leggere ovunque si parli di lui. Alla fine lo abbiamo riportato sui nostri binari per farci dire quali sono i cinque brani che definiscono la sua idea di drum and bass.
Dopo anni di djing, hai iniziato a produrre e sei partito dalla drum and bass. Come hai conosciuto questo ritmo e cosa ti ha affascinato tanto da spingerti anche a crearlo?
La verità è che quando conobbi il drum and bass, nell’autunno del 1995, non facevo il Dj professionista, anzi, mi dilettavo saltuariamente e in piccoli club della mia città. Tutto coincise con l’idea di aprire il Maffia. In quel periodo ascoltavo jazz e acid jazz e le label che trattavano quel genere stavano strizzando l’occhio ai nuovi linguaggi ritmici. Così la Talkin’ Loud, che l’anno precedente mi faceva balzare dalla sedia con l’album di Galliano, nel 1995 mi stordiva con Wax Doctor. Per merito di questa scintilla andai alla ricerca di tutto quello che la scena drum and bass aveva da offrire in quel periodo, e quindi Photek, LTJ Bukem, Alex Reece, Roni Size… una scena che mi dava la sensazione di una vera e propria rivoluzione, non solo di musica da ballo, ma di linguaggi veri e propri. L’utilizzo dei sample che venivano dall’hip hop, ma accelerati, i bassi del dub, ma esasperati, i suoni del jazz, ma sintetizzati… I miei primi tentativi di produzione su questo genere, erano veri e propri scimmiottamenti al buio. Non sapevo che, per fare i sub bassi, si utilizzavano certe tecniche, che i sample ritmici erano destrutturati e ricostruiti, perciò la mia evoluzione fu aiutata da svariati produttori/Dj che passavano nel locale che nacque da lì a pochi mesi, il Maffia. Il mio primo disco drum and bass fu creato proprio all’interno del club, in uno studio allestito con altri soci del Maffia, arruolando per lo scopo Dj Peshay, il mio amico bassista dei Ridillo, e sfoderando il mio flauto traverso: così nacque, nel 1999, il singolo “Made In Italy”.
Pensi che la drum and bass abbia perso quell’urgenza che aveva negli anni ’90? Segui ancora le nuove uscite?
Non seguo più come prima la scena, ma la forza propulsiva d’innovazione che il DnB aveva nella metà dei ‘90, ora si è affievolita. Idee nuove non mi pare di vederle più… come altri generi dance, si è assestato sul proprio linguaggio. La radice afro-futuristica che ha portato al DnB, però, ha avuto diverse evoluzioni negli ultimi venti anni, facendo capolino a inizio 2000 con il UK Garage, o più tardi con il dubstep. La "bass culture" è magmatica, senza forma fissa, ed è un modo sano di vivere un suono e una filosofia artistica.
Come si può far capire, in poche parole, a un nato nel nuovo millennio cos’è stata l’esperienza del Maffia? Dimmi se sbaglio, ma già spiegargli perché Reggio Emilia e non Milano, Roma o Torino, per esempio, non deve essere così semplice…
In poche parole, una pazzia. Un’urgenza, da parte di alcuni appassionati di musica, di ricreare nella propria città il club che calzava perfettamente alle loro esigenze. Il posto dove potevi ascoltare le cose che in Italia pochi volevano proporre, in un momento storico, a mio parere, di evoluzione musicale che, invece di nascere nei luoghi accademici, passava nelle sale buie dei club più coraggiosi. Un modo di fare ricerca differente, di fare cultura, di aggregazione alternativa, di espressione intellettuale non canonica… Il fatto di essere periferici, in una città come Reggio Emilia, ci ha aiutato a non essere schiacciati dai meccanismi di concorrenza spietata, cui purtroppo devi sottostare nelle grosse città.
Oggi quali generi di musica andrebbero per la maggiore al Maffia o che tipo di artisti sarebbero più apprezzati dal pubblico che affollava le vostre serate?
In totale sincerità, oggi, un locale come il Maffia non avrebbe senso di esistere. La curiosità, il coraggio, la sperimentazione, non sono cose che in questa epoca storica mi pare raccolgano apprezzamento. Parlando in astratto, come se non dovessimo tenere conto del momento in cui viviamo, gli artisti che oggi sarebbero chiamati al Maffia, in buona parte potrebbero essere italiani. La nostra scena artistica di musica elettronica è molto più varia, attiva e matura di com’era vent’anni fa e, soprattutto, eccelle in modo trasversale attraverso i generi: techno, house, DnB, disco, elettronica sperimentale, visual… abbiamo tutto e tutto sarebbe accolto a braccia aperte in un Maffia del 2020.
Ti viene in mente qualche aneddoto emblematico sugli artisti che hanno suonato al Maffia e che magari oggi si può raccontare?
Ne avrei tantissimi da raccontare, ma dato il vostro taglio, mi limito agli artisti drum and bass, restringendo alla crew Full Cycle (Krust, Die, Roni e Suv), che al Maffia era “di casa”. Ricordo ancora Krust quando venne la prima volta nel 1997: registrava tutto su un piccolo dittafono, compreso anche il rumore dei frigoriferi del bar, dicendo che gli sarebbe servito per creare un suono di basso. Poi ho l'immagine delle groupie di Dj Die che affollavano ogni volta il camerino o ancora Die che, dopo il live dei Breakbeat Era, fece un Dj set boogie ‘80 favoloso: il pubblico si aspettava drum and bass e lui spiazzò tutti quanti. C’è stato anche Fabio che arrivò al Maffia ma la compagnia aerea non gli recapitò la valigia dei dischi. Corsi a casa e gli riempii una borsa con i miei 12” che non avrei suonato in apertura al suo set quella sera. Quando lui salì in consolle, e per le restanti due ore del suo Dj set, suonò naturalmente quei miei vinili ma quello che tutti ascoltammo fu un set meraviglioso, senza nemmeno un brano che conoscessi: suonò tutte le B side, fu indimenticabile!
All’epoca ti sembrava che ci fosse un supporto diverso da parte dei media? Mi spiego meglio: a parte i cambiamenti evidenti, le evoluzioni che conosciamo tutti (carta, web, social network ecc.), agli occhi di chi faceva e fa parte della scena, come veniva raccontata la club culture in Italia nell’epoca della sua prima apparizione e come viene raccontata oggi?
Mi inviti a nozze con questa domanda. Il Maffia si inventò un vero e proprio magazine riservato ai clienti del locale, che noi battezzammo Ultratomato. Ne avevamo necessità perché i giornali musicali che all’epoca trovavi in edicola si occupavano di rock o cose più generaliste. La nostra urgenza, quella di avere un magazine che approfondiva la musica elettronica, si risolse in un “do it yourself”. Ultratomato scavava nella club culture affrontando varie tematiche, dai videogiochi ai film, dalla filosofia fino alle cose più comuni, come le recensioni dei dischi e gli articoli di approfondimento sugli artisti che avevamo in cartellone. Noi stessi, o amici dalla penna felice (un esempio, Damir Ivic), ci occupavamo di tutto, dalle interviste, alla scrittura, alla grafica, all’impaginazione… ogni numero di Ultratomanto era gratuito e veniva spedito a casa di ogni cliente del club. Oggi invece, sulla club culture, c’è una saturazione e una diversificazione di informazione a dir poco imbarazzante. Dai blog pressappochisti a quelli super specifici, da quelli per ragazzini a quelli per nerd…
Tornando alla musica suonata e facendo un salto in avanti: quanto il tuo ultimo lavoro, “Pasta EP”, racconta il tuo percorso dagli anni ’90 a oggi?
È innegabile che, avendo assorbito l’attitudine eclettica della musica elettronica negli anni ‘90, sono personalmente incline a essere onnivoro su tutti gli stili musicali che producano uno stimolo. I generi che ho sempre prediletto sono di matrice black, dal jazz alla musica brasiliana, dall’afro al funk ma, crescendo nel periodo della new wave e dei Kraftwerk, anche gli strumenti sintetici hanno sempre avuto un grosso fascino sulla mia formazione. Il percorso che ho intrapreso negli ultimi venti anni mi ha portato a esplorare dalla disco al boogie, dal jazz all’house, dalle cose più dark a quelle più balearic. Ho avuto un progetto italo disco con influenze new wave (Ajello), uno krautrock (Crimea X), fino ad approcciare la cosiddetta sfera cosmic, collaborando con Daniele Baldelli, o quella proto house con Dimitri From Paris. Anche il dub è un genere che amo e ho recentemente realizzato un album in quello stile assieme a uno dei soci Maffia, sotto il nome di Obsolete Capitalism. Il mio ultimo “Pasta EP” potrebbe essere riassuntivo per come nel 2018 cercavo di comprendere la dream house italiana, mescolata con i breakbeat, la scuola house della nu groove, e le linee acide della TR 303. Il prossimo album, “Isole”, in uscita a fine giugno 2019, testimonia un altro momento della individuale coniugazione di generi, cercando di sposare varie influenze come la musica etnica, quella acid house, quella nigeriana anni ‘80, i suoni rave , l’house ‘90, le melodie giapponesi e l’electro con l’indie.
Girando spesso anche all’estero grazie alla tua musica, ti sono rimasti impressi in particolare dei club, negli ultimi anni, che secondo te sono da tenere d’occhio?
I ricordi più freschi li ho con due club negli Stati Uniti, il Le Bain di New York e l’18th Street Lounge di Washington. Il primo è una apoteosi di eccesso, ma nel senso migliore del termine, mentre il secondo è nel mio cuore per la meravigliosa reazione dei clienti, al 90% di colore.
Per finire ti chiederei una mini playlist di 5 brani drum and bass che rendono bene la tua concezione di questo ritmo.
Photek – “Rings Around Saturn”
Hidden Agenda – “Is It Love”
Dillinja – “Acid Track”
Reprazent – “Brown Paper Bag”
Apollo Two – “Atlantis (I Need You) LTJ Bukem Remix”